domingo, 10 de septiembre de 2017

Un regalo de Susanna Tamaro

Caccia, il no di Susanna Tamaro «Lasciate cantare le allodole»

«Provengo da una famiglia di cacciatori e uno dei miei primi ricordi è il tentativo di rianimare dei corpicini piumati allineati sul tavolo di formica»

(9-9-2017 Il Corriere della Sera)
 
 
 
(Ansa) (Ansa)
Una cosa è guardare le immagini della siccità al telegiornale, un’altra è esserne testimoni in prima persona. L’acqua è il sostegno del vivente e la sua assenza è per tutti una via diretta verso la morte. In questi ultimi mesi ho assistito impotente alla lunga agonia di molte grandi querce. Nel giro di una settimana, le loro foglie sono diventate gialle. Sono morte di sete. Non cadranno quelle foglie a novembre, né altre spunteranno in primavera al loro posto, tutto ciò che rimarrà della loro maestosità sarà soltanto della legna per il fuoco. Bisogna essersi accorti del silenzio dei nidi, delle fronde: non nascono i nidiacei se non c’è cibo o, se anche nascono, hanno vita breve. C’è un nuovo immoto silenzio nell’aria: il silenzio della vita che ha dovuto rinunciare al suo cammino. Bisogna aver inalato il pulviscolo acre di un bosco in fiamme, aver visto i corpi carbonizzati degli scoiattoli, dei tassi, dei ricci, delle volpi, di tutti quegli animali che non hanno fatto in tempo a fuggire dalle fiamme. È stata anche un’ecatombe di coleotteri: nessuno pensa mai a loro perché la loro lunga incubazione di larve avviene proprio nel legno marcescente, nei tronchi e nelle radici. Dove passa il fuoco, la vita sparisce. Ci vorranno decenni perché quel bosco torni ad essere un bosco, quel campo, un campo. Nelle fiamme e di sete muoiono anche a milioni le api, le nostre piccole preziosissime amiche a cui tanto dobbiamo e a cui diamo così poca attenzione. Tutto il miele è finito scriveva profeticamente la poetessa austriaca Ingeborg Bachmann negli Anni 60.
Guardando la desolazione degli alberi morti
Guardando la desolazione degli alberi morti e di quelli agonizzanti, osservando le mie malinconiche arnie dalle quali non proviene più alcun ronzio operoso, non posso che domandarmi se i tempi non siano finalmente maturi per fare un serio discorso sulla caccia e sul sempre più devastato patrimonio naturale del nostro Paese. Un discorso che non evochi immagini di cerbiatti agonizzanti — anche se tutta la mia generazione ha pianto fiumi di lacrime sulla morte della madre di Bambi — né che demonizzi una categoria di persone, peraltro variegata e con diverse sensibilità. Provengo da una famiglia di cacciatori e uno dei primi e più vividi ricordi della mia infanzia è il tentativo di rianimare dei corpicini piumati allineati sul tavolo di formica. Non riuscivo a rassegnarmi che le loro teste ciondolassero inerti nella mia mano, che la sottile membrana dei loro occhi fosse caparbiamente chiusa e del tutto inutili i tentativi delle mie dita di riaprirli. Niente più sguardo, niente più vita. Forse in quelle domeniche mattina, nell’attesa che i piccoli venissero spiumati, ho intuito per la prima volta l’imprescindibile esistenza della morte.
Mors tua, vita mea
È da questo punto che bisogna partire per qualsiasi discorso sensato sulla natura. A parte i nostri animali di affezione, nessun esemplare che vive libero muore di vecchiaia. Mors tua, vita mea. Se vogliamo parlare poi del benessere animale, la vita di un fagiano, anche se finisce in padella, è infinitamente più desiderabile di quella di una gallina di allevamento, magari con il becco tagliato, che sconta i suoi pochi giorni di esistenza in un capannone sovraffollato senza mai raggiungere la felice dignità che la sua gallinacea vita richiederebbe. Lo scandalo in questo caso non è la morte, ma la non vita a cui si costringe l’essere vivente. Ci sono inoltre casi in cui il numero degli esemplari eccede. E quando lo fanno — cioè quando superano il numero che la natura ha stabilito per far loro vivere una vita equilibrata — in Italia, i cinghiali soprattutto, bisogna assolutamente provvedere, altrimenti gli animali diventano un problema prima di tutto per loro stessi: si ammalano, si indeboliscono e, spinti dalla fame e dal numero, diventano forzatamente devastatori di altri habitat. Ricordiamo però che i cinghiali sono ormai fuori controllo anche grazie all’immissione da parte degli stessi cacciatori di esemplari centroeuropei più grossi e con più alto tasso riproduttivo, che hanno stravolto l’ecosistema di quelli autoctoni. Tasso di cui, in primis, dovrebbero occuparsi gli istituti di zoologia.
Io personalmente non praticherei mai la caccia
Detto ciò, io personalmente non praticherei mai la caccia, né mi permetterei mai di chiamarlo sport, perché mi sembra che spargere il sangue del vivente, senza che ci sia una vera necessità di sopravvivenza, non possa mai essere equiparato a una corsa in bicicletta o a un lancio di giavellotto. Non a caso infatti i vecchi cacciatori, quando facevano strage di migratori, urlavano in coro dalla costa «Viva Maria!» quasi a farsi perdonare l’eccidio dalla più alta figura della maternità presente nella nostra cultura. In questa natura devastata e silente, sabato 1 settembre si è preaperta la caccia alle specie migratorie. A nulla sono valsi gli appelli delle associazioni che si occupano di animali — Lipu, Enpa, Lav, e anche il solitamente tiepidissimo Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) — le quali, data la gravità della situazione, hanno chiesto al governo e alle regioni di posticipare o addirittura annullare per quest’anno la stagione venatoria. Purtroppo i politici italiani, a meno che non arrivi una catastrofe, non sembrano interessati alla salvaguardia dell’ambiente. Lo ritengono un optional, uno sfondo pittoresco, poco interessante dal punto di vista elettorale.
Un Paese già allo stremo come il nostro
Tanto sono stati solerti nei decenni passati nel captare la benevolenza dei cacciatori, un tempo categoria molto più estesa — creando perfino abomini legislativi come il fatto che una persona armata possa entrare nelle proprietà private e sparare a una distanza pericolosissima, cento metri dalle case — altrettanto ora sembrano non capire che da trent’anni a questa parte la fruizione della natura nel nostro Paese è completamente cambiata e che dunque la potenzialità di voto sta ormai dalla parte opposta. Nella sensibilità collettiva, infatti, l’antico rapporto predatorio è stato sostituito da quello ricreativo e contemplativo, si percepisce la natura come un bene che va difeso e non distrutto. Permettere dunque l’apertura della caccia al 1° settembre in un Paese già allo stremo come il nostro è un’assoluta follia, un segno di menefreghismo nei confronti della maggior parte della popolazione. Pochi animali già sfiniti dalla siccità verranno abbattuti nelle prime settimane, e poi? Poi avremo il deserto. Oltre alle avverse condizioni climatiche, non dobbiamo dimenticare che comunque un grande numero di specie animali sta subendo quello che ormai gli scienziati definiscono la «sesta estinzione» cioè il crollo di popolazione, per lo più inspiegabile, che colpisce anche le specie più comuni. Vi siete accorti di quanti pochi passeri sono rimasti in circolazione?
La caccia fa parte della cultura del nostro territorio
La caccia fa parte della cultura del nostro territorio e non può essere eliminata — anche se il crollo verticale dei praticanti (580 mila nel 2015) e la loro età sempre più avanzata ci fa pensare a una lenta contrazione naturale — ma forse è arrivato il momento di chiedersi anche giuridicamente in nome di che cosa una minoranza può tenere in scacco e distruggere un bene che dovrebbe essere proprietà indisponibile di una maggioranza? È ben diverso sparare a un fagiano o a un’allodola. I fagiani vengono regolarmente allevati e reimmessi nell’ambiente a scopo venatorio, ma se si spara ad un’allodola, un animale che ha perso il 45% della sua popolazione negli ultimi vent’anni e quindi si sta avviando all’estinzione, si priva per sempre la natura di un bene che appartiene a tutti. Un’allodola, una tortora selvatica, una pavoncella — tutte specie a rischio ancora cacciabili in Italia — una volta estinte, saranno estinte per sempre. Nessuna stampante in 3D potrà mai riportarle in vita. Come mai le regioni e gli organismi governativi sono così insensibili a questo grido di allarme? Mancanza di interessi elettorali? Sudditanza all’industria delle armi? Convinzione che sia una battaglia di pochi fanatici idealisti che non ha alcuna incidenza sulla realtà? La solita tiritera che ci siano cose ben più gravi di risolvere, e che peraltro non vengono mai risolte? Ma la natura è la nostra casa comune. Soprattutto in questi tempi così difficili, è il luogo in cui possiamo trovare conforto e ristoro, insegnare la bellezza ai bambini e il rispetto alle generazioni che verranno. Distruggere tutto questo per indolenza, asservimento e menefreghismo vuol dire rendere sempre più vuoto, povero e squallido il mondo in cui viviamo. Parafrasando il filosofo Janckelevic, si può certo vivere senza il gioioso canto delle allodole, così come senza la poesia, l’arte, l’amore, ma mica tanto bene.

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