Caccia, il no di Susanna Tamaro «Lasciate cantare le allodole»
«Provengo da una famiglia di cacciatori e uno dei miei primi ricordi è il tentativo di rianimare dei corpicini piumati allineati sul tavolo di formica»
(Ansa)
Una
cosa è guardare le immagini della siccità al telegiornale, un’altra è
esserne testimoni in prima persona. L’acqua è il sostegno del vivente e
la sua assenza è per tutti una via diretta verso la morte. In questi
ultimi mesi ho assistito impotente alla lunga agonia di molte grandi
querce. Nel giro di una settimana, le loro foglie sono diventate gialle.
Sono morte di sete. Non cadranno quelle foglie a novembre, né altre
spunteranno in primavera al loro posto, tutto ciò che rimarrà della loro
maestosità sarà soltanto della legna per il fuoco. Bisogna essersi
accorti del silenzio dei nidi, delle fronde: non nascono i nidiacei se
non c’è cibo o, se anche nascono, hanno vita breve. C’è un nuovo immoto
silenzio nell’aria: il silenzio della vita che ha dovuto rinunciare al
suo cammino. Bisogna aver inalato il pulviscolo acre di un bosco in
fiamme, aver visto i corpi carbonizzati degli scoiattoli, dei tassi, dei
ricci, delle volpi, di tutti quegli animali che non hanno fatto in
tempo a fuggire dalle fiamme. È stata anche un’ecatombe di coleotteri:
nessuno pensa mai a loro perché la loro lunga incubazione di larve
avviene proprio nel legno marcescente, nei tronchi e nelle radici. Dove
passa il fuoco, la vita sparisce. Ci vorranno decenni perché quel bosco
torni ad essere un bosco, quel campo, un campo. Nelle fiamme e di sete
muoiono anche a milioni le api, le nostre piccole preziosissime amiche a
cui tanto dobbiamo e a cui diamo così poca attenzione. Tutto il miele è finito scriveva profeticamente la poetessa austriaca Ingeborg Bachmann negli Anni 60.
Guardando la desolazione degli alberi morti
Guardando
la desolazione degli alberi morti e di quelli agonizzanti, osservando
le mie malinconiche arnie dalle quali non proviene più alcun ronzio
operoso, non posso che domandarmi se i tempi non siano finalmente maturi
per fare un serio discorso sulla caccia e sul sempre più devastato
patrimonio naturale del nostro Paese. Un discorso che non evochi
immagini di cerbiatti agonizzanti — anche se tutta la mia generazione ha
pianto fiumi di lacrime sulla morte della madre di Bambi — né che
demonizzi una categoria di persone, peraltro variegata e con diverse
sensibilità. Provengo da una famiglia di cacciatori e uno dei primi e
più vividi ricordi della mia infanzia è il tentativo di rianimare dei
corpicini piumati allineati sul tavolo di formica. Non riuscivo a
rassegnarmi che le loro teste ciondolassero inerti nella mia mano, che
la sottile membrana dei loro occhi fosse caparbiamente chiusa e del
tutto inutili i tentativi delle mie dita di riaprirli. Niente più
sguardo, niente più vita. Forse in quelle domeniche mattina, nell’attesa
che i piccoli venissero spiumati, ho intuito per la prima volta
l’imprescindibile esistenza della morte.
Mors tua, vita mea
È da questo punto che bisogna
partire per qualsiasi discorso sensato sulla natura. A parte i nostri
animali di affezione, nessun esemplare che vive libero muore di
vecchiaia. Mors tua, vita mea.
Se vogliamo parlare poi del benessere animale, la vita di un fagiano,
anche se finisce in padella, è infinitamente più desiderabile di quella
di una gallina di allevamento, magari con il becco tagliato, che sconta i
suoi pochi giorni di esistenza in un capannone sovraffollato senza mai
raggiungere la felice dignità che la sua gallinacea vita richiederebbe.
Lo scandalo in questo caso non è la morte, ma la non vita a cui si
costringe l’essere vivente. Ci sono inoltre casi in cui il numero degli
esemplari eccede. E quando lo fanno — cioè quando superano il numero che
la natura ha stabilito per far loro vivere una vita equilibrata — in
Italia, i cinghiali soprattutto, bisogna assolutamente provvedere,
altrimenti gli animali diventano un problema prima di tutto per loro
stessi: si ammalano, si indeboliscono e, spinti dalla fame e dal numero,
diventano forzatamente devastatori di altri habitat. Ricordiamo però
che i cinghiali sono ormai fuori controllo anche grazie all’immissione
da parte degli stessi cacciatori di esemplari centroeuropei più grossi e
con più alto tasso riproduttivo, che hanno stravolto l’ecosistema di
quelli autoctoni. Tasso di cui, in primis, dovrebbero occuparsi gli
istituti di zoologia.
Io personalmente non praticherei mai la caccia
Detto
ciò, io personalmente non praticherei mai la caccia, né mi permetterei
mai di chiamarlo sport, perché mi sembra che spargere il sangue del
vivente, senza che ci sia una vera necessità di sopravvivenza, non possa
mai essere equiparato a una corsa in bicicletta o a un lancio di
giavellotto. Non a caso infatti i vecchi cacciatori, quando facevano
strage di migratori, urlavano in coro dalla costa «Viva Maria!» quasi a
farsi perdonare l’eccidio dalla più alta figura della maternità presente
nella nostra cultura. In questa natura devastata e silente, sabato 1
settembre si è preaperta la caccia alle specie migratorie. A nulla sono
valsi gli appelli delle associazioni che si occupano di animali — Lipu,
Enpa, Lav, e anche il solitamente tiepidissimo Ispra (Istituto superiore
per la protezione e la ricerca ambientale) — le quali, data la gravità
della situazione, hanno chiesto al governo e alle regioni di posticipare
o addirittura annullare per quest’anno la stagione venatoria. Purtroppo
i politici italiani, a meno che non arrivi una catastrofe, non sembrano
interessati alla salvaguardia dell’ambiente. Lo ritengono un optional,
uno sfondo pittoresco, poco interessante dal punto di vista elettorale.
Un Paese già allo stremo come il nostro
Tanto
sono stati solerti nei decenni passati nel captare la benevolenza dei
cacciatori, un tempo categoria molto più estesa — creando perfino
abomini legislativi come il fatto che una persona armata possa entrare
nelle proprietà private e sparare a una distanza pericolosissima, cento
metri dalle case — altrettanto ora sembrano non capire che da trent’anni
a questa parte la fruizione della natura nel nostro Paese è
completamente cambiata e che dunque la potenzialità di voto sta ormai
dalla parte opposta. Nella sensibilità collettiva, infatti, l’antico
rapporto predatorio è stato sostituito da quello ricreativo e
contemplativo, si percepisce la natura come un bene che va difeso e non
distrutto. Permettere dunque l’apertura della caccia al 1° settembre in
un Paese già allo stremo come il nostro è un’assoluta follia, un segno
di menefreghismo nei confronti della maggior parte della popolazione.
Pochi animali già sfiniti dalla siccità verranno abbattuti nelle prime
settimane, e poi? Poi avremo il deserto. Oltre alle avverse condizioni
climatiche, non dobbiamo dimenticare che comunque un grande numero di
specie animali sta subendo quello che ormai gli scienziati definiscono
la «sesta estinzione» cioè il crollo di popolazione, per lo più
inspiegabile, che colpisce anche le specie più comuni. Vi siete accorti
di quanti pochi passeri sono rimasti in circolazione?
La caccia fa parte della cultura del nostro territorio
La
caccia fa parte della cultura del nostro territorio e non può essere
eliminata — anche se il crollo verticale dei praticanti (580 mila nel
2015) e la loro età sempre più avanzata ci fa pensare a una lenta
contrazione naturale — ma forse è arrivato il momento di chiedersi anche
giuridicamente in nome di che cosa una minoranza può tenere in scacco e
distruggere un bene che dovrebbe essere proprietà indisponibile di una
maggioranza? È ben diverso sparare a un fagiano o a un’allodola. I
fagiani vengono regolarmente allevati e reimmessi nell’ambiente a scopo
venatorio, ma se si spara ad un’allodola, un animale che ha perso il 45%
della sua popolazione negli ultimi vent’anni e quindi si sta avviando
all’estinzione, si priva per sempre la natura di un bene che appartiene a
tutti. Un’allodola, una tortora selvatica, una pavoncella — tutte
specie a rischio ancora cacciabili in Italia — una volta estinte,
saranno estinte per sempre. Nessuna stampante in 3D potrà mai riportarle
in vita. Come mai le regioni e gli organismi governativi sono così
insensibili a questo grido di allarme? Mancanza di interessi elettorali?
Sudditanza all’industria delle armi? Convinzione che sia una battaglia
di pochi fanatici idealisti che non ha alcuna incidenza sulla realtà? La
solita tiritera che ci siano cose ben più gravi di risolvere, e che
peraltro non vengono mai risolte? Ma la natura è la nostra casa comune.
Soprattutto in questi tempi così difficili, è il luogo in cui possiamo
trovare conforto e ristoro, insegnare la bellezza ai bambini e il
rispetto alle generazioni che verranno. Distruggere tutto questo per
indolenza, asservimento e menefreghismo vuol dire rendere sempre più
vuoto, povero e squallido il mondo in cui viviamo. Parafrasando il
filosofo Janckelevic, si può certo vivere senza il gioioso canto delle
allodole, così come senza la poesia, l’arte, l’amore, ma mica tanto
bene.
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